Mede amici della biblioteca
La coltivazione della vite sembra avere avuto origine nell’Asia minore ed in particolare nelle aree caucasiche e negli antichi territori della Persia e sembra che la madre di tutte le uve (le ricerche genetiche indicano questo) sia da considerare il Moscato.
La coltivazione della vite sicuramente iniziò per uso alimentare, ovvero per produrre e consumarne il frutto, il grappolo di uva, ma come si arrivò al vino? Una delle prime e più importanti tracce di vino risale al periodo Paleolitico con il ritrovamento di uva fermentata all’interno di recipienti disposti in alcune caverne.
Questo ci può far pensare, come per tutte le bevande ed i cibi fermentati (lievitati), che il processo iniziò casualmente. Probabilmente delle uve disposte in recipienti per essere conservate, iniziarono a fermentare per la presenza di grani di frumento dimenticati sul fondo, perché non conservate al freddo, perché le uve erano state pressate per riempire maggiormente l’anfora. Come spesso è accaduto, anche in questo caso la scoperta fu frutto di un errore.
Sicuramente la produzione di vino in Italia iniziò con gli Etruschi, in questo emulatori dei fenici, con cui intrattenevano sicuri rapporti commerciali.
A Roma, nei primi anni della fondazione, il consumo del vino era riservato alle classi più agiate; il suo uso era proibito alle donne data la scarsa quantità prodotta. Siccome le donne stavano ben attente a non farsi scoprire, allo scopo di verificare se esse avessero bevuto, era permesso baciarle in bocca.
I romani non avevano una particolare competenza nella coltivazione della vite e trascuravano la potatura, producendo vini di scadente qualità a causa dei raccolti troppo abbondanti. Dominavano incontrastati i vini “greci” prodotti nelle colonie della Magna Grecia ed in Grecia, perché migliori.
L’espansione della coltivazione della vite venne poi favorita anche dall’elevato numero di schiavi a disposizione. In considerazione di ciò la produzione di vino aumentò quantitativamente e migliorò qualitativamente, grazie alla introduzione delle tecniche impiegate nel vigneto e nella cantina copiandole dai greci. Aumentò anche il consumo, che fu finalmente esteso anche alle donne.
Non mi addentro in questa occasione su tutta la mitologia legata al vino e conseguenti culti e cerimonie legate alle divinità greche Dionisio, e latine Bacco (come peraltro nei paesi del Nord con l’idromele, bevanda cara a Odino e Thor).
Già allora vi erano i degustatori patentati (“haustores”) che classificavano i vini. Essi facevano parte della corporazione dei “Pregustatores“, specializzati nell’arte di degustare per primi e dare giudizi su cibi e bevande destinati ai grandi banchetti o ai potenti dell’epoca, che temevano di essere avvelenati.
I degustatori patentati si attenevano a poche ma inderogabili norme che regolavano la degustazione. Queste le regole dell’epoca per la “norma del perfetto degustatore”:
- Non bere né a digiuno, né avendo mangiato troppo;
- Non bere dopo avere mangiato
- Non dopo aver bevuto qualcosa di acido o di salato;
- Non deglutire il vino che si sta degustando ma, dopo averlo tenuto un poco sulla lingua, sputarlo (pytassare si diceva allora);
- scegliere, quando si vuole “degustare”, un giorno in cui tiri la tramontana, anziché lo scirocco, in quanto lo scirocco intorbida il vino.
Per la degustazione generalmente si usava la “Pocula”, classica coppa “ombelicata“, simile per molti aspetti all’attuale taste-vin e così chiamata per il poco liquido che conteneva.
In base ai risultati dell’assaggio si stabilivano gli eventuali tagli e i trattamenti di affinamento ed invecchiamento (ed in parte ciò avviene anche oggi).
Per ottenere vini più alcolici e più dolci i romani ricorrevano anche alla bollitura del mosto; in tal maniera si riduceva il volume e si concentrava il tenore zuccherino. Inoltre si otteneva:
- Con l’appassimento delle uve su graticci per qualche settimana ottenendo il “Passum”;
- con aggiunta di miele (fino a 250 g/l) il “Mulsum”;
- con aggiunta di aromi i picata (con pece), i murrina(con mirra), gli absinthium (con assenzio).
L’aggiunta di aromi o resine, aveva lo scopo di fungere da conservante e di nasconderne i difetti, compresa la forte acidità acetica, che all’epoca era cosa piuttosto usuale. Diciamolo: i vini di quella antichità non piacerebbero al consumatore attuale.
Negli strati archeologici più antichi dell’area mediterranea si incontrano spesso recipienti di ogni forma e dimensione, soprattutto in terracotta o in metallo, per il vino e l’olio. Caratterizzati di solito da piccole dimensioni non erano certo adatti al trasporto di grandi quantità, ma già testimoniano come la necessità di conservare il vino fosse una preoccupazione prioritaria dei nostri antenati.
Bisogna pensare che in una qualche misura fossero utilizzate gli otri in pelle animale, anche se, per la putrescibilità del materiale, non ne abbiamo evidenti e diffuse tracce.
Le anfore portavano al collo una specie di etichetta, che riportava il luogo di provenienza del vino, il tipo di vino che contenevano, l’anno di produzione, il giorno del riempimento, il nome del produttore e quello del console in carica. Questa usanza era nei tempi recenti ed è utilizzata sulle damigiane di vetro.
I vini subivano la “diffusio“, ossia il travaso, dai recipienti in cui era avvenuta la fermentazione, in anfore più piccole. Le anfore normalmente rimanevano nel luogo di consumo del vino, in quanto erano “vuoto a perdere”. A Roma venivano ridotte in frantumi e finivano in una discarica che col tempo diventò una collinetta il “Testaccio” o monte dei cocci.
Il vino raramente veniva bevuto puro, bensì era soggetto all’annacquamento, che poteva anche essere di quattro parti d’acqua contro una di vino, era affidata ad un “Magister Simposii“o agli “Haustores“, così come in Grecia al “Simposiarca“.
Il vino faceva parte delle vettovaglie indispensabili al seguito delle legioni romane. Non bisogna credere che servisse per infondere coraggio (o incoscienza) ai legionari; avevo lo scopo di permettere la disinfezione delle acque con cui dissetarsi. Questo la dice lunga sulla composizione ricca in acido acetico dei vini all’epoca.
L’uso di annacquare il vino prima di mescerlo comincerà a scomparire nell’ultimo scorcio dell’epoca imperiale con il tramonto della cultura greco-romana, ma principalmente durante il Medioevo, anche perché cambia la composizione ed il vino assume sempre più le caratteristiche di quello attuale.
Nel frattempo anche l’anfora cominciava a perdere terreno nei confronti della botte. In tal senso influirono i contatti con i popoli celtici delle province romane, che erano maestri nell’arte di lavorare il legno.
Rispetto alle attuali, le botti erano più lunghe e meno panciute e in epoca romana avevano i cerchi di legno, cosa che sulle piccole botticelle si e conservata fino agli inizi del 900 in molte zone d’Italia.
Radicali evoluzioni nella composizione dei vini, meno alcolici e acidi e la introduzione della botte di legno, non permisero più a partire dal Medioevo i lunghi invecchiamenti tipici della tradizione e del gusto greco-romano.
A differenza dell’anfora di terracotta, che poteva essere chiusa ermeticamente, la botte di legno, infatti, presentava una porosità che non permetteva di invecchiare a lungo il vino senza che si alterasse. Questo problema rimase irrisolto fino a quando gli inglesi che non coltivando la vite, in considerazione delle poco favorevoli condizioni climatiche e rifornendosi da centri di produzione generalmente lontani, non scoprirono la tecnica dell’alcolizzazione. L’aggiunta di alcol ai vini consentiva, infatti, non solo di renderli più dolci, ma anche più stabili, meno alterabili e quindi più facilmente trasportabili durante i lunghi viaggi in nave.
Tale tecnica di alcolizzare il vino venne così introdotta verso il Seicento in Portogallo, esattamente ad Oporto, per la produzione del Porto, e successivamente a Jereza della Frontera per lo Sherry e in Sicilia, a Marsala, per la produzione dell’omonimo prodotto.